UNA MOTIVAZIONE SU CUI RIFLETTERE
di Iole Natoli
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La sentenza del Tribunale civile di
Palermo, che qui si riporta, bocciò nel 1982 l’eccezione di costituzionalità
sollevata nel 1980 dalla ricorrente Iole Natoli con la prima causa civile
italiana per l’attribuzione del cognome materno alla prole (nel
caso in oggetto, come aggiunta al paterno nel matrimonio).
Benché, alla luce della condanna inflitta all’Italia nel 2014 dalla Corte EDU per un ricorso d’impianto differente (solo il cognome materno, nel matrimonio) il rigetto si riveli infondato in rapporto ad alcune delle sue motivazioni, la sentenza - oltre a costituire il punto d’inizio nel succedersi di analoghe richieste - contiene interessanti delucidazioni in merito alla titolarità del diritto al nome e all’assenza del diritto di trasmissione, che sembra opportuno porre in relazione col disegno di legge n. 1628, “Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli”, oggi in attesa di discussione al Senato. | ||
SENTENZA
TRIBUNALE SEZIONE PRIMA CIVILE DI PALERMO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Palermo Sezione Prima Civile composto dai
Signori:
1) Dott. Stefano Gallo
PRESIDENTE
2) Dott. Gaetano Tomaselli
GIUDICE
3) Dott. Salvatore Salvago
GIUDICE Rel.
ed estensore
riunito in Camera di Consiglio ha emesso la seguente
SENTENZA
nel processo civile iscritto al n. 3900/80 del R. G.
tra affari civili contenziosi
TRA
Natoli Iole, nata a Palermo il (../../….), ivi
residente e ai fini del presente giudizio elettivamente domiciliata in
Palermo via Villaermosa 29 presso lo studio dell’Avv. Francesco Tinaglia che
la rappresenta e difende in forza di procura a margine dell’atto di
citazione.
A T T R I C E
E
Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura dello Stato di
Palermo e presso la stessa domiciliato in via Marchese di Villabianca n. 114.
C O N V E N U T O
E
Comune di Palermo in persona del Sindaco pro-tempore,
rappresentato e difeso dall’Avv. Gaetano Friscia
C O N V E N U T O
E
Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Palermo domiciliato per la carica in Palermo Piazza V. E.
Orlando.
C O N V E N U T O
E
A. G. rappresentato e difeso dall’Avv. Pompeo
Mangano.
C O N V E N U T O
CONCLUSIONI PER L’ATTRICE
PIACCIA AL TRIBUNALE
Reiectis adversis;
previo accertamento della rilevanza sul presente giudizio
della eccezione di costituzionalità dello art. 237 comma 2° cod. civ. in
relazione agli artt. 3, comma 1°, 29 comma 2° e 30 comma 1° della
Costituzione, voglia ritenere manifestamente infondata la sopraindicata
eccezione di illegittimità costituzionale e, conseguentemente, voglia
sospendere il presente giudizio rimettendone gli atti alla Ecc.ma Corte
Costituzionale;
Indi voglia ordinare all’Ufficiale dello Stato civile
di Palermo di eseguire la rettificazione richiesta mediante annotazione a
margine degli atti di nascita di cui si tratta.
CONCLUSIONI PER IL CONVENUTO -Ministero dell’Interno-
PIACCIA AL TRIBUNALE
dichiarare inammissibile, improponibile e comunque
infondata la domanda della Natoli.
Vinte le spese.
CONCLUSIONI PER IL CONVENUTO -Comune di Palermo-
PIACCIA AL TRIBUNALE
Disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa.
Rigettare le domande attrici per difetto di
giurisdizione dell’A.G.O e perché inammissibili o, comunque, infondate in
fatto ed in diritto.
condannare l’attrice alle spese e competenze del
giudizio.
Salvo ogni altro diritto.
CONCLUSIONI PER IL CONVENUTO - G.-
PIACCIA AL TRIBUNALE
Dichiarare la propria incompetenza e,
subordinatamente, il difetto di legittimazione dell’attrice; nel merito
comunque respingere le domande attrici per le ragioni esposte, dichiarando in
ogni caso manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità.
Con vittoria di spese ed onorari.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1980,
Iole Natoli convenne in giudizio davanti a questo Tribunale, il Ministero
dell’Interno, il Sindaco ed il Procuratore della Repubblica di Palermo,
nonché il marito A. G., quale genitore esercente la patria potestà sulle
figlie R., nata il … /… / 1966 e ... T., nata il … /… / 1968 ed espose che
negli atti di nascita di entrambe le minori era stato indicato soltanto il
cognome paterno "G". in virtù di una disposizione ritenuta implicita
nell’ordinamento e comunque generalmente ricollegata al disposto degli artt.
73 Ord. st. civ. e 237 cod. civ.
Ora, poiché quest’ultima norma contrasta con i
principi costituzionali posti a tutela della dignità sociale della donna,
dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché della posizione dei
figli rispetto ai genitori (e viceversa), l’attrice, denunciando altresì che
la stessa determina una minore rilevanza del rapporto madre-figli, portati ad
identificarsi più nel padre e nei collaterali di parte paterna, chiese che il
giudizio fosse rimesso alla Corte Costituzionale, previa declaratoria di non
manifesta infondatezza della questione, ed indi ordinata all’Ufficiale di
Stato Civile la modifica di entrambi gli atti di nascita delle figlie
mediante l’apposizione del proprio cognome a fianco di quello paterno.
Stabilito il contraddittorio, si costituirono il
Ministero dell’Interno, il Comune di Palermo ed A. G. nella qualità, i quali
eccepirono, tutti, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario; eccepì
inoltre il Ministero convenuto il proprio difetto di legittimazione passiva
che apparteneva invece a quello di Grazia e Giustizia mentre il G. contestò
la legittimazione della Natoli a lui affidate dall’autorità giudiziaria e
chiese nel merito il rigetto di tutte le domande.
Compiuta quindi l’istruzione la causa è stata rimessa al
Collegio che nell’udienza del 12 febbraio 1982 l’ha assunta in decisione con
le conclusioni delle parti precisate e trascritte in epigrafe.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Tutti i convenuti hanno preliminarmente eccepito il
difetto del giudice ordinario in quanto l’aggiunta del cognome materno può
ottenersi nel vigente ordinamento soltanto con uno speciale provvedimento
amministrativo di natura concessoria regolato dalla legge delegata
sull’Ordinamento dello Stato Civile -art.153-164 R.D. 9 luglio 1939 n. 1238-.
L’eccezione risulta infondata: è ben vero infatti che
la posizione del cittadino di fronte al predetto procedimento ed al “decreto
concessivo” del Capo dello Stato che lo definisce (art. 157 1° comma) non è
di diritto soggettivo, ma semmai in caso di diniego “contra ius” del provvedimento
permissivo, di interesse legittimo all’osservanza da parte della P. A. della
menzionata normativa, tutelabile di conseguenza davanti al giudice
amministrativo.
Sennonché Iole Natoli, come la stessa ha
ripetutamente precisato nelle proprie difese, ha escluso di voler promuovere
siffatto procedimento “nel quale la modifica del cognome è subordinata ad una
valutazione discrezionale sull’esistenza di motivi plausibili per ottenerla”,
ma ha dedotto di essere titolare di un diritto soggettivo perfetto a
trasmettere ai propri discendenti il suo cognome.
L’attrice, cioè, ha chiesto l’attribuzione alle
figlie anche del cognome materno non già nell’interesse di queste ultime ed
in quanto minori, e quindi agendo in nome e per conto loro, bensì nell’interesse
proprio e per far valere un autonomo diritto proprio, tratto dal combinato
disposto degli artt. 3, 29, e 30 Cost.; sistema questo alla luce del quale
risulterebbe illegittima perché lesiva della dignità sociale della donna e
della sua posizione di moglie e di madre la prassi di attribuire ai figli il
solo cognome paterno, peraltro fondata unicamente sulla norma dell’art. 237
cod. civ. che indica fra i fatti costitutivi del possesso di stato di figlio
legittimo, l’aver portato il cognome del padre.
In tal modo precisata la “causa petendi” della
domanda, erroneamente qualificata e interpretata dai convenuti in base ad una
sola parte del “petitum”, restano superate tanto l’eccezione di difetto di
legittimazione attiva (rectius: di titolarità attiva del rapporto) della
Natoli formulata dal convenuto G. sull’erroneo presupposto che la moglie
avesse agito in rappresentanza delle figlie minori, affidate soltanto a lui
dall’autorità giudiziaria, quanto l’eccezione di difetto di legittimazione
passiva (rectius: titolarità passiva del rapporto) del Ministero
dell’Interno, prospettata dall’Avvocatura sull’identico erroneo presupposto
che l’attrice per ottenere l’attribuzione della propria famiglia d’origine
volesse e dovesse esperire il menzionato procedimento di cui al R. D. n. 1238
del 1939 di competenza del Ministero di Grazia e Giustizia.
Attiene invece al merito della controversia
verificare la sussistenza e la fondatezza del diritto invocato dalla Natoli
di trasmettere ai discendenti quale donna e/o madre il proprio cognome e più
specificamente stabilire se tale diritto sia ricollegabile ad un principio
già vigente nell’attuale ordinamento dello Stato Civile, se debba invece
ritenersi introdotto dai menzionati artt. 3, 29, 1° comma e 30 1° comma della
Costituzione, ovvero escluso, secondo l’assunto dei convenuti G. e Comune di
Palermo anche dal nuovo sistema costituzionale (Cass. S.U. 23 maggio 1975 n.
2056 in motivaz.).
A tal fine giova rilevare che per la configurazione e
l’attribuzione di un autonomo diritto della donna di trasmettere ad altri il
proprio cognome occorrerebbe anzitutto recepire da un lato l’arcaica e da
tempo abbandonata concezione dottrinaria più rispondente alla normativa di
passati regimi che comprendeva il diritto al nome tra i diritti reali,
considerandolo un bene patrimoniale esteriore rispetto al soggetto e quindi
oggetto di un suo diritto di proprietà; e dall’altro il principio, pur esso
superato, che l’acquisto del cognome avvenga per “successione” (sia pure)
“inter vivos” dai genitori ed esclusivamente per volontà di questi ultimi;
nozioni queste che se ebbero un qualche seguito durante la vigenza del codice
abrogato, più non si conciliano con le direttive fondamentali introdotte
dalla Carta Costituzionale che considera il nome esclusivamente come un bene
personale (art. 22) che la repubblica si impegna a garantire annoverandolo
tra i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali (art. 2). Ma il contrasto diviene insanabile ove si consideri ancora
che il preteso autonomo diritto -sia esso qualificato reale, ovvero assoluto-
per essere tale deve necessariamente collegarsi con un particolare obbligo a
carico dei soggetti nei confronti dei quali verrebbe riconosciuto
dall’ordinamento, primi fra tutti gli stessi figli, i quali resterebbero di
conseguenza “obbligati” a subirlo come nel caso in ispecie, anche contro la
loro volontà; la madre o la donna, infatti, non potrebbe sentirsi protetta
nella situazione di vantaggio attribuitale dall’ordinamento ove anche questi
ultimi non fossero tenuti (in base all’ordinamento) ad assicurare sia pure
con il solo contegno passivo di chi subisce le condizioni per il godimento di
tale posizione giuridica.
Sorgerebbe in tal modo una specifica quanto singolare
obbligazione, a carico peraltro dei soli figli legittimi e di quelli naturali
contestualmente riconosciuti da entrambi i genitori, contraria quindi a
qualsiasi ragionevole uguaglianza e giustificata soltanto dalla necessità di
assicurare alla madre un diritto nell’esclusivo interesse di quest’ultima
onde garantirle parità giuridica e morale con il coniuge di sesso maschile.
Sennonché proprio siffatta concezione di un bene
appartenente alla sfera giuridica del figlio inteso come “diritto” proprio ed
autonomo dei genitori è resistita ed avversata dai precetti contenuti negli
artt. 29 e 30 Cost. i quali nell’enunciare i presupposti sui quali si fonda
l’istituto giuridico della famiglia e nell’individuare i doveri ed i diritti
dei genitori, li considerano come manifestazioni congiunte ed inscindibili di
uno “status” attribuito ed ordinato per il raggiungimento di interessi non
solo del soggetto attivo, ma anche e soprattutto del soggetto passivo, (ed in
ciò sta la peculiarità dello “status” di padre e/o di madre) nonché per il conseguimento
di interessi superindividuali, quali l’esigenza pubblica che il figlio,
specie se minore, riceva la prima e fondamentale protezione nell’ambito della
sua famiglia; “status” quindi che è a concepirsi come una complessa
situazione comprensiva di diritti ed obblighi, di poteri e doveri, in ordine
all’assistenza, all’allevamento e al mantenimento dei figli (art. 30 1° comma
“è dovere e diritto”), ma sempre e soltanto nell’interesse di questi ultimi;
altrimenti il diritto o il potere del genitore non troverebbe fondamento
alcuno.
Né una deroga ai suesposti principi, può trovare
ingresso per la necessità di compensare l’identico diritto di trasmettere ai
discendenti il proprio cognome, attribuito secondo la Natoli, al padre cui
pertanto non potrebbe essere consentito “un più ampio diritto senza con ciò
attentare al principio di eguaglianza e di pari dignità della donna
nell’ambito della famiglia (pag. 5 atto di citazione), in quanto proprio
questa erronea premessa circa la sussistenza nel genitore di sesso maschile
di siffatto diritto, rende palese il macroscopico equivoco logico-giuridico
in cui è caduta l’attrice e che probabilmente ha costituito la ragion
d’essere della sua pretesa: invece il diritto al cognome che si acquista al
momento della nascita, è attribuito alla persona “per legge” (art. 6, 1°
comma cod. civ.) in quanto considerato già dalle norme contenute nel codice
civile, strettamente inerente alla persona che rappresenta ed individua in sé
medesima e nelle sue azioni (esso fa sì che a ciascuno siano ascritte le sue
proprie azioni). Per mezzo di tale diritto si realizza il bene dell’identità,
consistente nel distinguersi nei rapporti sociali, dalle altre persone,
risultando per chi si è realmente e riceve quindi tutela l’identità
personale; e l’identità personale è un modo di essere morale della persona,
un bene esclusivamente personale -e cioè proprio soltanto del soggetto cui
appartiene-, non contenente in sé stesso una immediata utilità di ordine
economico.
Tale natura e funzione assolutamente personale è
integrata ed accentuata dai principi fissati dalla Costituzione la quale,
come rilevato dalla più qualificata dottrina e dalla giurisprudenza della
Corte di Cassazione, con indirizzo ormai consolidato, ha affermato
l’esistenza di un diritto assoluto di personalità -inteso come diritto alla
libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo
come singolo- nel quale si esauriscono senza esaurirlo le particolari
situazioni disciplinate dalle norme volte alla tutela del nome, (art. 6 e 7
cod. civ.) dell’immagine, della segretezza, (art. 10 cod. civ. e 9 e segg.
legge sul diritto di autore), della corrispondenza (art. 93 e segg. stessa
legge) e così via.
Ed è appunto questo sistema imperniato sul
riconoscimento e la garanzia dei diritti dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 cit.)
-prima fra tutte la famiglia- e sull’impegno di rimuovere gli ostacoli che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° comma Cost.) a
fornire fondamento positivo a siffatto assunto che nel vigente ordinamento la
persona umana è un valore unitario i cui interessi se pure possono essere
isolati concettualmente, conservano tuttavia, necessariamente, un comune
punto di riferimento oggettivo e sono sostanzialmente solidali tra di loro;
talché le varie forme di tutela non costituiscono il fondamento di diversi,
autonomi, diritti della personalità, ma punti di emersione di un diritto
unico a contenuto indefinito e vario di cui il nome costituisce una posizione
speciale e concreta nonché uno degli aspetti particolari, (Cass. 20 aprile
1963 n.990; 1 febbraio 1962 n. 201 e da ult. 27 luglio 1978 n. 3779).
In tal modo individuata la funzione del nome (nella
duplice componente del prenome e del cognome), di mezzo di significazione
della complessiva personalità del soggetto, esso non può che condividerne le
caratteristiche intrinseche ed essere al pari di quest’ultima un diritto
assoluto, che può farsi valere dal titolare contro tutti, irrinunciabile ed
immutabile (salvo in quanto non sia ammesso nelle forme di legge) e
soprattutto personalissimo, cioè che ha per oggetto un bene invalutabile
nonché appunto un mezzo di individuazione della persona, inseparabile da essa
e strettamente inerente al suo titolare; diritto quindi che non può neppure
essere ipotizzato al di fuori del soggetto cui appartiene né configurato come
autonomo potere appartenente a terzi e nell’interesse di questi ultimi, senza
perdere la sua ragion di essere e quella della sua stessa tutela.
Né può ritenersi che la personalità del nome attiene
soltanto alla sua attribuzione, al suo mantenimento ed alla sua difesa, ma
anche alla determinazione delle sue componenti in quanto ciò è vero soltanto
per il prenome la cui scelta è rimessa da una norma speciale (art. 70 e segg.
Ord. St. Civile) non suscettibile quindi di estensione analogica, anzi tutto
alla discrezionale volontà dei genitori e quindi all’intervento del giudice,
in caso di contrasto tra questi ultimi.
(art. 316 e segg. Cod.Civ.)
Ma in ordine al cognome, per la necessità anche
sociale di identificare con un massimo di certezza i soggetti della vita e
dell’attività giuridica (già le fonti romane ammonivano che “interest et
homini et reipublicae nomina significandorum hominum officio fungere et
adimpleri”) il legislatore ne ha rigidamente predeterminato in modo
automatico i criteri di “imposizione” nelle varie ipotesi di filiazione
(riconociute e ??????) l’attribuzione da parte dell’Ufficiale dello Stato
Civile, con i limiti e le cautele espressamente stabilite se il soggetto è
sprovvisto di alcuno “status” di figlio (art. 71 e 75 r.d. n. 1238
cit.):cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto nell’ipotesi di
filiazione naturale e quindi cognome della madre se questa lo ha riconosciuto
per prima (art. 262, 1° comma) nonché nel rapporto di filiazione legittima.
In quest’ultimo caso, invero, l’art. 73, R.D. 1238
non prescrive espressamente l’attribuzione del cognome paterno, ma trattasi
di un principio secolare riconosciuto dal diritto “ab immemorabili” che, come
rilevano le stesse parti, è talmente radicato nelle consuetudini e penetrato
nel costume da essere accolto universalmente in tutti gli Stati e da non
potersi quindi dubitare del suo valore giuridico. E che questa regola sia
stata recepita anche nel nostro ordinamento non può ragionevolmente dubitarsi
argomentando “a fortiori” dal disposto degli “artt. 262 e 292 cod. civ. ed
atteso l’inequivoco tenore della norma contenuta nell’art. 237, 2°comma cod.
civ. secondo cui per il possesso di stato di figlio legittimo è necessario
tra l’altro “che la persona abbia sempre portato il cognome del padre che
essa pretende di avere”: norma questa dettata nell’esclusivo interesse dei
figli legittimi e diretta ad attribuire a quanti di loro provino di essere in
possesso del relativo “status” il diritto di portare il cognome del padre e
non viceversa come prospettato dall’attrice cui pertanto non potrebbe
attribuire, neppure se dichiarata costituzionalmente illegittima il diritto
di trasmettere ai discendenti il proprio cognome, così come nell’attuale
formulazione non lo attribuisce al padre (o al marito), trattandosi di un
diritto di esclusiva pertinenza di questi ultimi e quindi da essi soltanto
reclamabile.
Anche per i figli legittimi e per quelli naturali
contemporaneamente riconosciuti da entrambi i genitori, infatti, l’acquisto
del relativo cognome non costituisce il contenuto di un diritto paterno di
trasmetterlo loro, (così come per i figli naturali riconosciuti per primi
dalla madre non sussiste un analogo diritto di costei) né avviene per
successione in un presunto diritto di tale natura, perché il figlio acquista
il cognome del padre ancora portato da questo.
Egli acquista invece “ipso iure”, vale a dire per
volontà della legge, lo stesso cognome del padre il quale, come ha osservato
la più attenta dottrina, non si trasmette dal padre al figlio, ma si estende
da quello a questo: trattasi cioè di un acquisto necessario che prescinde
dall’interesse dei genitori (quale che ne sia il sesso) e quindi dal
vantaggio o dal pregiudizio che a ciascuno di essi possa arrecare; tant’è che
non può essere eliminato nemmeno dalla loro concorde volontà, né tanto meno
dalla loro congiunta opposizione, ma modificato, se ne ricorrano le condizioni
e le ipotesi previste dalla legge soltanto per volontà del suo titolare (o
dei suoi rappresentanti legali se minore) con il menzionato procedimento di
cui agli artt. 153 - 164 R. D. n. 1238 del 1939.
Ed anche in tal caso il riflesso pubblicistico incide
in tal misura che il potere di concedere il mutamento è riservato a una
valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione e che di contro
neanche al titolare del cognome è attribuito un diritto soggettivo ad
ottenerlo, bensì soltanto un interesse legittimo.
Certamente i predetti criteri (e non soltanto quelli
relativi ai figli legittimi) non costituiscono un sistema ottimale né esente
da critiche anche alla luce delle ideologie via via penetrate in questi anni
nella coscienza sociale; per cui può concordarsi con l’attrice sulla
necessità di nuove prudenti soluzioni normative non solo nella disciplina
sostanziale del modo di acquisto di questo particolare segno distintivo della
personalità, ma anche nel regolamento correlato al suo successivo mutamento.
Ma nel vigente ordinamento tra l’interesse dello
Stato alla predeterminazione ed al controllo del cognome dei propri cittadini
ed il diritto di costoro a non subire l’imposizione se non negli stretti
limiti in cui l’interesse pubblico richieda il sacrificio, non vi è spazio
per un eguale diritto di imposizione e/o trasmissione da riconoscere
autonomamente a terzi estranei al nome, anche se legati al suo titolare dal
particolare status di “padre” o di “madre”; a meno che per evitare il
pregiudizio che possa derivare agli interessi di fatto ed alle mutevoli
ideologie di questi ultimi non si vogliano riesumare antiche tradizioni
autoritarie del rapporto genitori-figli (e dei diritti dei primi sui secondi)
che restano tali anche se invocate in nome della Carta Costituzionale
Le domande della Natoli vanno pertanto rigettate sotto
ogni profilo dedotto mentre in
ordine alle spese del giudizio, la assoluta novità delle questioni trattate
ne consiglia la compensazione tra tutte le parti.
P. Q. M.
Rigetta le domande formulate da Iole Natoli e
dichiara interamente compensate tra tutte le parti le spese del giudizio.
Così decisa nella Camera di Consiglio della Prima
Sezione Civile del Tribunale di Palermo il 19 febbraio 1982.
Il Presidente Stefano Gallo
Il Giudice est. Salvatore Salvago
Depositata in Cancelleria oggi 24 Marzo 1982.
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Note a margine:
N. SENT. 865/82
N. R.G.390080
N. CRON. 5552
N. REP. 1585
OGGETTO: Condannatorio
Udienza Collegiale 12/2/1982
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Inserita il 20
Febbraio 2015 da Iole Natoli
_____________________________________ Val al COMMENTO di questa Sentenza (->∆) |
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venerdì 20 febbraio 2015
Tribunale di Palermo 1982 - COGNOME MATERNO prima SENTENZA in Italia
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